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Channel: La Firma Cangiante
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MINIONS

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(di Pierre Coffin e Kyle Balda, 2015)

Sono andato a vedere Minions senza grandi aspettative dopo aver letto in rete pareri decisamente contrastanti su questo spin-off/prequel di Cattivissimo me con protagonisti i simpaticissimi affarini gialli assistenti dell'ormai ex malvagio Gru. Ad affossare ancor di più le aspettative, pessime notizie dal versante del doppiaggio. Con tutta probabilità ciò è stato un bene perché in fin dei conti nel guardare le imprese dei Minions mi sono divertito parecchio.

Il film è diviso idealmente in due parti, la seconda più lunga della prima e fortunatamente anche meglio riuscita. Quindi, vediamo... due parti di film e nessuna trama, mica male come colpo! Eh si, perché il plot è talmente esile da risultare quasi un mero pretesto per mettere in fila in maniera coerente una serie di gag con protagonisti i Minions, un po' come fanno i nostri comici da cabaret quando sbarcano al cinema, con la differenza che i Minions sono anarchicamente divertenti (o almeno sono divertenti).

Comunque l'idea di un lungo dedicato a personaggi che (non) parlano una lingua strampalata e incomprensibile, fatta da un miscuglio di espressioni inventate, italiano, inglese, spagnolo, coreano, etc..., è certamente coraggiosa. Il fatto meraviglioso è che questo intoppo invece di rivelarsi una difficoltà per gli sceneggiatori si è trasformato nel punto di forza (già dai film precedenti) che ha reso i Minions il fenomeno di merchandising spinto che è oggi sotto gli occhi di tutti. Mia figlia quest'anno ha il diario dei Minions e in questo momento uno Stuart vestito da hippie mi sta fissando con il suo unico occhio da una mensola là in alto. La pallina dei Minions chissà dov'è finita, le gommine sono nel portapenne. E oggi mio fratello ha avuto il coraggio di chiedermi "cosa sono i Minions?".

Parlando di linguaggio, chapeaux per Pierre Coffin, voce dei Minions, veramente un grande. Chapeaux anche per chi si ostina a far doppiare i film d'animazione alla Littizzetto, veramente fastidiosa e inascoltabile, questa volta addirittura affiancata da Fazio, coppia già di per se davvero poco esaltante, ci mancava solo il bancone di Che tempo che fa ed eravamo a posto. Comunque Fazio se la cava meglio della sua compare e nell'avanzare del film non ci si fa caso più di tanto, la voce fastidiosa rimane solo una.


Comprensibile invece la scelta di usare Alberto Angela come voce fuori campo per la prima parte del film, una sorta di documentario che narra l'origine dei Minions e le loro disavventure nel corso dei secoli alla ricerca del cattivo più cattivo da eleggere come loro signore e padrone. Dopo aver provato un tirannosauro, gli egizi, il Conte Dracula, Napoleone Bonaparte e uno Yeti, i Minions rimangono senza guida, soli e incompleti tendono alla depressione, finché un coraggioso terzetto composto da Kevin, Bob e Stuart partirà alla ricerca di un nuovo capo, approdando nella New York del 1968. Qui inizia l'ideale seconda parte del film con l'ingresso di personaggi umani e i Minions alla volta dell'Expo-Cattivi dove incontreranno una potenziale leader: Scarlet Sterminator.

Come dicevamo, poca trama, manca anche la moralina edificante se vogliamo, il tutto è puro casino, pura gag e a dire il vero anche parecchio divertente. I protagonisti sono azzeccatissimi, il livello d'animazione decisamente alto, ottime le ricostruzioni d'ambiente e d'epoca a New York come a Londra, davvero poco sottile la presa in giro degli inglesi con la loro mania per il the e la loro imperturbabilità, begli gli omaggi ai Beatles e alla Regina Elisabetta, fantastica la scelta dei brani inseriti in colonna sonora, canzoni d'epoca tra The Who, Turtles, Kinks, Doors e moltissimi altri. Poca storia, parecchie risate, può andar bene anche così.


TERRORE ALLA TREDICESIMA ORA

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(Dementia 13 di Francis Ford Coppola, 1963)


Nonostante il film (da considerare quasi un esordio alla regia per Coppola) presenti alcune sequenze virate all'horror, non fatevi trarre in inganno dalla locandina di questo Terrore alla tredicesima ora (locandina che alla fine non ho inserito nel post). Siamo nel 1963 e sebbene la pellicola fuoriesca dalla factory di Roger Corman, il taglio della stessa vira in maniera decisa sul versante del thriller gotico con risvolti psicologici. Esperimento di sicuro interesse, in misura ancor maggiore se si considera che Coppola girò il film con pochissimi soldi avanzati da Corman dal budget di un altro film. Stessa location, un paio di attori pescati dal set precedente, resto del cast reclutato in loco (siamo in Irlanda) ai minimi sindacali e via che si va, semaforo verde e carta bianca per il futuro big del cinema mondiale.

Alla fine della fiera Corman poi non sarà così contento dei risultati, farà girare qualche scena in più, aggiungerà un po' di minutaggio ma tant'è... l'esordio alla regia di Coppolaè servito. Ma che cosa prevedeva questo film girato in quattro e quattro otto?

Intanto, nella migliore tradizione del gotico, un bel bianco e nero portatore della giusta tensione, sollecitato alla bisogna dagli effetti sonori di maniera atti a destare l'attenzione dello spettatore su passaggi particolari. Alcune sequenze davvero ben girate, compresa un'avvincente ripresa subacquea con protagonista una poco vestita Luana Anders e una trama tutto sommato intrigante, anche se si intuisce facilmente dove si voglia andare a parare.


Louise (Luana Anders) è sposata con John Haloran (Peter Read) e mira all'eredità della di lui madre, facoltosa matriarca degli Haloran. Quando John muore d'infarto, Louise ne occulta il cadavere facendo credere alla famiglia che Johnè in viaggio per lavoro, questo allo scopo di prendere tempo e convincere la signora, con metodi subdoli, a includerla nel suo testamento. Ma nel tetro castello irlandese dove la famiglia risiede, le cose non sono poi così normali. La signora Haloran (Eithne Dunne) e i suoi due figli Richard (William Campbell) e Billy (Bart Patton) vivono nel ricordo della defunta sorellina Kathleen (Barbara Dowling) annegata nel lago della tenuta ormai da sette anni. Ogni anno la famiglia rievoca il giorno della morte della bambina, tra incubi, svenimenti e inevitabili sensi di colpa.

Louise, intenzionata a sfruttare la morbosa situazione a proprio vantaggio, non sa bene a cosa sta per andare incontro.

Coppola riesce a infondere al film il giusto grado di tensione e, pure se reclutati al risparmio, i componenti del cast sono calati perfettamente nelle loro parti. A mio avviso il film è ben riuscito, gli si rimprovera appunto uno scioglimento di sviluppo un poco prevedibile, la visione comunque risulta più che soddisfacente.


IL CAVALIERE SOLITARIO

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(di Claudio Nizzi e Joe Kubert, 2001)

Probabilmente per questa testata in casa Bonelliè vietatissimo ogni sorta di passo falso. Con questa frase chiudevo l'ultimo post dedicato alla collana del Texone e sì, vi confermo di essere infine giunto al delirio autocitazionista. Appurato ciò, l'affermazione in apertura di post in ogni caso non risulta meno veritiera. Il nome coinvolto in questa ennesima prova titanica dal grande Sergio Bonelliè di quelli realmente influenti e importanti, un nome tale da consentire anche alcune deviazioni strutturali di racconto rispetto alla via maestra tracciata e percorsa finora da tantissimi altri grandi artisti. Nella fattispecie stiamo parlando di Joe Kubert, padre dei disegnatori Adam e Andy e fondatore della celebre Joe Kubert School of Cartoon and Graphic Art.

Per Joe Kubert, eroe dei comics d'oltreoceano, la casa editrice e l'infallibile Claudio Nizzi di conseguenza, pensano a una vicenda strutturata in maniera particolare ed esportabile sul mercato statunitense in vista di un'operazione commerciale dal probabile successo, garantito, oltre che dalla qualità della proposta, dal nome di Kubert stesso. Il cavaliere solitarioè infatti una singola storia lunga ma ben divisibile in episodi singoli da 45 pagine ognuno, ben individuabili leggendo l'albo, una formula molto più vicina alle abitudini del lettore medio americano che però riesce a non snaturare la natura del Texone in quanto la narrazione di Nizzi non risente di particolari stacchi tra un episodio e l'altro, rimanendo sempre perfettamente omogenea. Insomma, tutta l'operazione è stata gestita con la dovuta arguzia e la giusta accortezza.


Altra deviazione dal tracciato. Come raramente accade Texè solo, niente Kit Carson, niente pargolo, niente Tiger Jack. Solo Tex. Scelta insolita che però anche in questo caso strizza l'occhio alla tradizione tutta americana dell'eroe solitario che si erge contro tutti a difesa dei deboli e in riparazione di un torto subito. In questo caso leggi anche alla voce vendetta, tremenda vendetta. Non a caso il titolo del quindicesimo Texone è Il cavaliere solitario, un albo che tra l'altro picchia duro e non lesina colpi bassi e che ci mostra un Tex duro, per una volta in cerca di vendetta più che di giustizia.

E per una volta è bello e quasi straniante rivedere in alcune espressioni di Tex, in alcuni primi piani, il volto di Xavier, lo sguardo di Frank Castle, il viso lentigginoso di una Rose, il profilo di un Gambit o la figura sensuale di Rogue che così spesso abbiamo intravisto tra le pagine colorate dei comics grazie ai segnali di stile che papà Joe ha trasmesso ai figli Andy ed Adam.

Il tratto di Kubert si sposa benissimo allo stile classico del western, ma è un classico moderno, dinamico e avvincente che profuma di storia del fumetto, una storia dove Tex può diventare Tarzan, trasfigurare in un violento antieroe o impersonificare l'essenza dell'eroe più nobile. Alla quindicesima uscita il Texone non era domo, per nulla, è possibile spostare l'asticella ancora più in alto?


COVER GALLERY - WEIRD WAR TALES

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Weird War Tales 1 - Joe Kubert
Weird War Talesè stata una fortunata serie antologica edita dalla DC Comics dal Settembre del '71 fino al Giugno dell'83 che è arrivata a collezionare ben 124 uscite. Ovviamente il filo conduttore delle varie storie presentate negli albi era lo scenario di guerra ibridato con l'orrore o con il fantastico, già dalle copertine infatti, oltre ai soldati americani o ai nazisti, non è raro trovare scheletri, fantasmi, mostri e quant'altro. Nel corso degli anni ad avvicendarsi alle matite della serie e alle copertine, una serie di autori comprendente nomi noti e meno noti del panorama fumettistico a stelle e strisce. In tempi più recenti la serie è passata a presentare avventure di super combattenti spostando il tenore delle storie su lidi un pochino diversi.

Ho scelto di presentare una selezione di cover non attingendo mai due volte al lavoro di uno stesso artista ma tentando invece di offrire le varie interpretazioni del tema offerte da diversi cartoonist.

Come per gli scorsi appuntamenti e come accadrà nei prossimi, vi chiedo di segnalare le vostre cover preferite (per un massimo di tre) in modo da organizzare un'eventuale mostra virtuale con le migliori illustrazioni proposte nei vari Cover Gallery. Ovviamente il voto è completamente libero, si può giudicare il tratto del disegnatore, la costruzione della copertina, il soggetto, lo stile, l'eventuale citazione, etc..., insomma, quello che più vi piace, non ci sono regole. E magari questo pistolotto ve lo beccherete copincollato tutte le prossime volte, come memento :)

PS: la cover in apertura di post è votabile come le altre.

PPS: dopo le segnalazioni di J_D_La_Rue e diLuigi Bicco attribuiamo la cover numero 25 a Louis Dominguez, unico artista quindi ad essere rappresentato da due copertine.

Weird War Tales 8 - Neal Adams



Weird War Tales 10 - Nick Cardy



Weird War Tales 12 - Mike Kaluta



Weird War Tales 14 - Louis Dominguez



Weird War Tales 18 - George Evans



Weird War Tales 25 - Louis Dominguez



Weird War Tales 89 - Jim Starlin



Weird War Tales 101 - Ross Andru



Weird War Tales 118 - Gil Kane

BACK TO THE ROOTS: VERSO IL ROCK 'N ROLL

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Sempre più vicini alla nascita del rock 'n roll, a metà degli anni '40 si inizia a parlare di jump-blues, sottogenere che mischia voci (nere), fiati, influenze jazz e stampo blues, corrente musicale tra quelle identificate come precorritrici del rock n' roll stesso. Nel frattempo le grandi band allargate nate per lo swing si restringono dando vita a formazioni dedite al rhythm 'n blues, genere ancora oggi vivo e vegeto che con tutti i distinguo dettati dal passar degli anni conosciamo con il nome di R'n'B.

Tra gli esponenti del jump-blues l'eclettico Louis Jordan, cantante, attore, musicista e direttore d'orchestra. Fattosi le ossa nelle big band dedite allo swing, duettò anche con una giovane Ella Fitzgerald prima di formare la sua band personale, la Tympany Five di stanza ad Harlem.

Tra avvicendamenti dei membri della band e cambi di location, Louis Jordan inanellò diversi successi tra i quali alcuni davvero remunerativi. Tra i tanti ci ascoltiamo il redditizio Choo Choo Ch'Boogie.



E magari ascoltiamoci anche, sempre della band di Jordan, Ain't that just like a woman facendo caso al riff iniziale del brano. Non ci stiamo avvicinando al rock 'n roll?



Anche il blues si fa più elettrico, alcuni musicisti come T Bone Walker per esempio, iniziano a dare segni, soprattutto nei loro live show, di quelli che diventeranno poi i così detti guitar heroes con performance infuocate e originali usi dello strumento.

APPALOOSA

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(di Ed Harris, 2008)

Western atipico, moderno ma con molte strizzate d'occhio al classico e ai vari topoi del genere. Atipico perché atipica è la coppia d'eroi protagonista del film, vero punto di forza di questa seconda prova da regista di Harris. È proprio lo strano rapporto tra Virgil Cole (lo stesso Ed Harris) e l'amico fidato Everett Hitch (Viggo Mortensen) il motore di una pellicola ben riuscita e originale, un rapporto denso di ironia, grande rispetto, dedizione, fiducia e amicizia virile, un'amicizia così stretta e inattaccabile da superare anche il potenziale ostacolo alla stessa causato dalla bella (?) Allison French (Renée Zellweger), un'amicizia che in alcune sequenze, una in particolare, sembra sfociare in una tensione carica di omoerotismo.

Appaloosa, almeno in questo caso, non è una razza equina bensì una piccola cittadina del New Mexico che nel 1882 rimane orfana di sceriffo, causa la sua uccisione per mano del fuorilegge Randall Bragg (Jeremy Irons), tipo losco che terrorizza i pacifici abitanti della città. È a questo punto che alcuni notabili del paese ingaggiano lo sceriffo Virgil Cole e il suo vice Everett Hitch per riportare ordine in città e arrestare il colpevole dell'omicidio del'ex sceriffo. Ma i due non sono una comune coppia di tutori della legge, bensì un duo di raddrizzatorti impermeabili alla paura e alla preoccupazione, sprezzanti del pericolo, dell'inferiorità numerica e di qualsiasi cosa possa pararsi sul loro cammino. Una sorta di Tex Willer e Kit Carson, più ambigui e di molte meno parole.

Gli scambi di battute tra i due sono spesso divertenti, i volti e le movenze degli attori cuciti perfettamente addosso ai due bellissimi personaggi, uno sceriffo incurante di tutto quando è alla caccia di una preda, capace però di innamorarsi in maniera candida e ingenua al primo incontro con la musicista Allison, primo incontro durante il quale Cole non si fa remore a chiedere alla donna se il suo mestiere sia quello della puttana, e un vice infallibile con il suo calibro otto così come nel giudicare le persone.

Everett Hitch e Virgin Cole (che gran coppia!)

Mortensen e Harris sono semplicemente perfetti, la Zellweger, che sinceramente non mi è mai piaciuta, non stona tra le strade di Appaloosa, cittadina difficile ma molto lontana dal lerciume violento di molti film western. Temibile ma allo stesso tempo ruffiano il Randall Bragg di Irons che sfoggia il giusto volto da irredimibile impunito.

Appaloosa non è un film di grandi sparatorie (che pure ci sono) e inseguimenti a cavallo, è un western diverso, di personaggi ma soprattutto di sacrifici e d'amicizia, quella con la A maiuscola. L'unico rimpianto sta nel vedere come Harris, ottimo attore, si sia prodigato così poco nel mestiere di regista avendo all'attivo due sole pellicole che, a giudicare dalla riuscita di Appaloosa, sembrano davvero poche. Cresce sempre più, nella mia personale classifica di preferenze, Viggo Mortensen, attore che a inizio carriera avrei erroneamente bollato come belloccio ma poco profondo. Porgo le mie scuse più sentite.


SUPEREROI IN TV

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Non paghi di aver invaso le sale cinematografiche e di essere diventati una ricetta quasi perfetta per portar soldi nelle tasche delle major che ne detengono i rispettivi diritti, i supereroi sono sbarcati in massa ormai da qualche anno anche sul piccolo schermo. Tra personaggi nati sulle pagine dei fumetti e serial che semplicemente si inseriscono nel filone, come ad esempio Heroes (ora Heroes reborn), le storie dedicate a superpoteri e simili iniziano ad essere davvero parecchie.

Probabilmente, come accade al cinema, il genere tira e continua ad attrarre frotte di fan, a parte il caso dubbio di Constantine non mi pare che nessuna delle moderne serie messe in produzione da Marvel, Dc e simili (o chi per esse) sia mai stata a rischio cancellazione.

Ma in fin dei conti la qualità media di questi prodotti com'è? E soprattutto questi serial a chi sono rivolti?

A mio modesto parere, parere da amante del genere, quasi tutti questi serial vanno valutati con i dovuti distinguo. Ovvero, siete amanti del genere o non lo siete? Qui sta molta (ma non tutta) la differenza. Per chi è indifferente alle tematiche supereroiche, per chi non è amante del fumetto seriale, dei vari personaggi, e quindi cerca in queste serie quello che cerca nelle altre indistintamente, probabilmente il giudizio oscillerà da uno scarso (per i detrattori) a un discreto (per i possibilisti).

Lo ammetto, se non fossi cresciuto a pane e fumetti probabilmente al posto di Arrow o Agents of Shield mi dedicherei con più assiduità a serial come Mad Man, I Soprano, The Walking Dead o a quello che pare a voi, prodotti qualitativamente e indubbiamente superiori. Da fan o nerd capace di cogliere quasi tutti i riferimenti e le strizzate d'occhio presenti in questi serial, reputo la loro riuscita globalmente più che discreta, cosa che un non fan probabilmente non farà, con la possibile eccezione per il recente Daredevil, ma di questo magari ne riparliamo.

Cosa c'è in giro?


Arrow: arrivato alla terza stagione il serial continua la sua opera di consolidamento, probabilmente la strada tracciata funziona e quindi non si cambia. Si rincorre l'approccio al genere il più possibilmente realistico sulla falsa riga del Batman di Nolan (dal quale siamo però molto, molto distanti), una visione dura e cinica dell'eroe o, se vogliamo, dell'antieroe. In questa terza stagione le rogne affrontate da Oliver Queen (Stephen Amell) e soci sono ad opera del temibile Ras Al Ghul (Matt Nable) e della sua Lega degli assassini. Sembra si cerchi la costante escalation alla situazione sempre più ostica e difficile da gestire per gli eroi della serie costretti a destreggiarsi tra tradimenti e scelte terribili. Prosegue a livello narrativo il doppio piano temporale presente/passato che inizia a mostrare un po' la corda. Sempre più corale con i nuovi ingressi di eroi come Katana, Atom, Speedy e Black Canary, ormai a Starling City tutti sono dei vigilantes, dal capitano d'industria all'uomo delle pizze. Dal cast si poteva forse chiedere qualcosina di meglio. Comunque il serial tiene botta, per chi ha gradito le stagioni precedenti anche questa non deluderà.

The Flash: esordio per il velocista scarlatto in questa prima stagione nella quale si è guardato a un lato del supereroe decisamente più classico: più superpoteri, più ironia, meno pose da duri, soprannomi, costumini in spandex e una trama orizzontale gradevole e ben costruita. Qui ci sono paradossi temporali, acceleratori di particelle, scienza impazzita, super armi e chi più ne ha più ne metta. Insomma, il classico supereroe, per molti aspetti più genuino e meno tirato per i capelli di Arrow in quanto qui tutto è più giustificabile. Cast più in palla con i volti giusti al posto giusto, da segnalare nel ruolo del padre di Flash (Grant Gustin) il Flash televisivo degli anni '90, John Wesley Shipp. Nel corso della serie un paio di crossover con Arrow a rendere organica la narrazione di casa DC.


Gotham: all'esordio ancora una serie DC Comics ma al momento slegata dalle due precedenti. Apparentemente siamo in un'epoca anteriore, in una Gotham City comunque moderna (ci sono i cellulari, i computer, etc...) ma nella quale Bruce Wayne (David Mazouz), il futuro Batman, è ancora un bambino. I veri protagonisti sono il detective Jim Gordon (Benjamin McKenzie) e il suo socio corrotto Harvey Bullock (Donal Logue), il passo è quello del police procedural più che quello del telefilm supereroico. Interessante vedere ritratti i primi passi di noti criminali e futuri eroi, ma è più che altro un gioco di citazioni e i pregi della serie, a parte qualche sequenza ben riuscita è una buona ambientazione scenografica, si fermano più o meno qui. Discontinua e non sempre convincente, davvero ottimi però alcuni componenti del cast come Sean Pertwee (Alfred) e Robin Lord Taylor (Il Pinguino).

Constantine: fermata ai tredici episodi, un po' prima del previsto, la serie delude soprattutto chi come me ama il personaggio di John Constantine. Nonostante Matt Ryan sia un protagonista credibile il John Constantine tratteggiato da Delano, Ellis, Ennis e compagnia cantante tra le pagine di Hellblazer era ben altra cosa, probabilmente inarrivabile. Nel genere magico orrorifico per tutti decisamente meglio Supernatural che almeno è divertente.

Supergirl: mandato in onda il pre-air, ancora troppo poco per giudicare ma la prima impressione non promette grandi cose. Superman sempre presente ma erroneamente mai mostrato per intero in video, plot poco intrigante, attesa per la serie pari a zero. Si vedrà.

Supergirl

Agents of Shield: anche qui, come per Arrow, si continua sul sentiero noto lungo il quale la serie procede tra alti e bassi per un risultato finale comunque discreto. Discontinua, con momenti entusiasmanti (o quasi) e puntate fiacche.

Daredevil: non ho ancora avuto modo di completare la serie che è semplicemente e senza ombra di dubbio il miglior prodotto del genere, una serie dii ottimo livello che può competere con molti altri serial non supereroici. Da vedere, ma magari di questa ne riparliamo più avanti.

Un fenomeno parecchio esteso, che questo sia un bene o un male ditemelo voi. Che ne pensate di tutto questo popò di roba?

Daredevil

MOON KNIGHT - DALLA MORTE

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(di Warren Ellis e Declan Shalvey, 2014)

Moon Knight o The White Knight Returns. Non sappiamo bene per quale ragione precisa ma il cavaliere lunare di casa Marvel non è mai (ne è ancora) riuscito a ritagliarsi un vero posto nell'empireo dei supereroi di serie A. Eppure di tanto in tanto torna a far capolino con una serie personale o con una mini, insomma The White Knight Strikes Again.

In fondo, pur non conoscendone la storia a menadito, a me Moon Knightè sempre piaciuto, trovo che il personaggio sia uno di quelli azzeccati e pieni di fascino in attesa che l'autore giusto arrivi a coglierne tutte le potenzialità. Ci aveva provato poco tempo fa Brian Bendis, autore di una saga discreta che si concentrava sulla sanità mentale di un eroe affetto da disturbo da personalità multipla.

Se nella suddetta maxiserie i compagni di viaggio immaginari del milionario Steven Grant erano, oltre al suo alter ego Moon Knight, i Vendicatori Capitan America, Spider-Man e Wolverine, nella nuova serie orchestrata da Warren Ellis almeno sotto questo aspetto si torna alle origini. Rientrano infatti in gioco le vecchie identità di Moon Knight: Steven Grant (il milionario), Marc Spector (il mercenario) e Jake Lockley (il tassista). E poi c'è Konshu, la divinità egizia protettrice della notte, l'entità grazie al quale tutto è iniziato. Ma Ellis non si ferma qui, in maniera subdola ricompone la mente dell'eroe quasi a farlo sembrare in apparenza sano, imputando, per mezzo delle teorie della dottoressa che segue Marc Spector, tutte le stranezze e i cambi di registro del suo paziente ai vari aspetti della divinità Konshu. Ma chi è questa dottoressa e come fa a sapere del legame tra Spector e Konshu?

Quindi un Moon Knight figlio di Konshu e un po' più sano di mente? Naaaaa, non credo proprio. Al momento questi sono i semi gettati lì da quel geniaccio di Ellis, semi che spetterà a Brian Wood, autore dei successivi sei episodi, coltivare e far crescere. E sono solo accenni, per il resto Warren Ellis torna a una struttura a lui cara già sperimentata nel suo Global Frequency, una struttura dove i singoli episodi sono storie chiuse e autosufficienti nei quali oltre a narrare una vicenda, l'autore si toglie il gusto di sperimentare, nella narrazione e nella costruzione visiva delle tavole grazie all'aiuto dell'ottimo matitista Declan Shalvey.


Il tratto nervoso dell'artista tratteggia al meglio la personalità di quello che è ormai diventato a tutti gli effetti un bianco protettore dei viaggiatori notturni, un Moon Knight che può palesarsi nella sua terrificante cappa bianca come all'occorrenza con un candido completo giacca e cravatta. In quasi ogni storia si trova almeno una soluzione grafica particolare con vette d'originalità toccate nel secondo episodio (sia narrative che visive) e nella splendida sequenza onirica del quarto, che presenta le migliori tavole psichedeliche viste da qualche tempo a questa parte.

L'edizione Paniniè davvero elegante, piacevole anche al tatto, confezionata in volumi con un bianco e nero da favola (le storie all'interno sono a colori). Al momento la serie prosegue con un cambio d'autore ogni sei numeri, situazione perfetta per la pubblicazione italiana in volumi. Dopo Ellis arriverà Brian Wood, seguito a ruota da Cullen Bunn.



VINCENZINA 006

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Piove, governo ladro!



Per chi fosse interessato ad acquistare una copia nell'edizione della Red dei libri di Bradi Pit o di Vincenzina potrà richiederla direttamente a Giuseppe contattandolo all'indirizzo email scapigliati@aruba.it

INSIDE OUT

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(di Peter Docter, 2015)

Inutile perdersi in giri di parole, Inside Outè un piccolo capolavoro, d'animazione e non solo, e forse nemmeno tanto piccolo. Ho riso, ho pianto, ho provato nostalgia, un po' di dolore e, perché no, anche un filino di paura. Una vasta gamma di emozioni, tutte presenti nel film, alcune addirittura protagoniste, emozioni note a chiunque. Identificazione totale, ancor più se si è pre-adolescenti o anche genitori. In ogni caso se si è esseri umani, quindi, in qualche modo, ci rientriamo proprio tutti.

Inside Out è un film che nella sua semplicità (di plot) gode di un lavoro di costruzione alle spalle molto strutturato, una stratificazione di livelli di lettura e concetti anche complessi, molti incomprensibili per i bambini, capaci però di creare un amalgama in grado di arrivare dritto al cuore e farti ripensare alla tua vita, alla tua infanzia, a quella dei tuoi figli, alla loro crescita e ai cambiamenti in corso così importanti per loro e a tratti già difficili da comprendere per noi più adulti. Dentro Inside Out ci sono la crescita, il cambiamento e più in generale c'è la vita. Si può chiedere di più a un film? Credo di no.

In giro sulla rete ho notato che si parla spesso di questo film come il prodotto migliore di casa Pixar fino ad oggi, è davvero così? Forse la risposta può sembrare difficile, la Pixar ha sfornato grandi film a profusione però sì, penso che sul piano emotivo e su quello concettuale Inside Out abbia davvero una marcia in più rispetto a tutti i suoi predecessori. Qui, e sembra appunto impossibile, siamo saliti di livello. Altro discorso quello sulla tecnica d'animazione, ottima e anche questa molto studiata nella resa dei personaggi protagonisti, bella ed efficace, ma qui nessuna sorpresa. Lo spettacolo visivo offerto da Pixar, valutato nell'epoca d'uscita dei film della casa di Luxo, è sempre stato grandioso, ottimo lavoro quindi anche per Inside Out senza però scarti significativi sui predecessori.

La costruzione del plot è geniale, nella nostra testa, come in quella della protagonista undicenne Riley, c'è una sala controllo che influisce sull'andamento della nostra vita, a gestirla le cinque emozioni dominanti: Rabbia, Disgusto, Gioia, Paura e Tristezza. Attraverso una consolle che definisce tutti gli eventi vissuti dalla piccola Riley e una serie di ricordi primari e secondari, le cinque emozioni costruiscono il vissuto della bambina, durante tutto il suo percorso di crescita.


In coincidenza con un evento traumatico come il trasloco dal Minnesota a San Francisco, con conseguente perdita di amici, certezze e abitudini, nella sala di controllo di Riley qualcosa si incrina, all'apparenza sembra che Tristezza stia assumendo una posizione dominante, aspetto finora proprio della più solare Gioia. La catena di disastri aumenterà di proporzioni e mentre proprio Gioia e Tristezza intraprenderanno un lungo e pericoloso viaggio nella speranza di risistemare le cose, starà a PauraRabbia e Disgusto tirare avanti la baracca con tutto quello che ne consegue.

Da qui è già intuibile la complessità di costruzione di una vicenda che agli occhi dei bambini rimane comunque semplice, in più i protagonisti affronteranno e dovranno convivere con inconscio, ricordi sbiaditi, amici immaginari, treni dei pensieri e tutta una serie di strutture che inserite in un cartone animato assumono un fascino incredibile.

Il film ha un velo innegabile di tristezza, una tristezza profonda, capace di farti piangere, ma anche di far pensare, riflettere e farti amare ancor di più le cose belle che hai nella vita, in particolar modo, se fosse possibile amarli ancor più di così, i propri figli (almeno per me che sono genitore).

Non è secondaria la riflessione possibile su come, da un momento all'altro, qualcosa nella nostra testa possa andare storta, probabilmente non era intenzione dello staff della Pixar, ma è facile pensare a come una persona solare da un momento all'altro possa cadere preda di depressioni o cose del genere, tema non affrontato nel film apertamente ma non troppo lontano da alcuni concetti presentati.

Un cartone animato? No, un piccolo capolavoro.

TROPICAL BLUES

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Per la seconda delle Miniserie Bonelli di nuovo corso si torna a guardare all'avventura, l'Avventura con la maiuscola, quella dichiaratamente ispirata e debitrice della grande epopea di Corto Maltese, dei mari del Pacifico e della penna di Hugo Pratt.

Il ritorno al classico potrebbe sembrare a molti palati moderni un passo indietro sulla via dell'innovazione e dell'originalità ma... perché c'è sempre un ma... seppur io abbia gradito la prima uscita, il Coney Island di Manfredi, Barbati e Ramella, devo dire che con Tropical Blues il duo Luigi Mignacco e Marco Foderà mi ha convinto e divertito in misura ancor maggiore (soprattutto all'esordio, con il primo albo).

In Tropical Blues, titolo davvero azzeccato, ci sono una storia solida e ben costruita, dei personaggi interessanti e ben delineati, il mare, anzi l'Oceano, un uomo scomparso, un investigatore, un marinaio, un indigeno, una bella fanciulla, i selvaggi, un mistero, azione, il pericolo, Rasputin, beh no, non è proprio Rasputin, un nonno ricco, la giungla, antiche culture, un colonnello con l'idrovolante, il caldo rovente, i pirati, la fauna selvaggia, il matto, prigioni, fughe, lance e fucili.

Mignacco riesce a fondere tutti questi elementi creando semplicemente una bella storia, di quelle che leggi davvero volentieri, nè più, nè meno. Impianto classico, sì, ma di quelli che non stancano mai se scritti come si deve. Alle matite Foderà allestisce tre numeri con stile perfetto per questo blues tropicale, linee pulite, un bel dinamismo e una certa eleganza coloniale che non guasta affatto (e non chiedetemi perché mi è uscito l'aggettivo coloniale che non lo so, però mi sembra starci molto bene).


Capita che la barca del Capitano Starke abbia la peggio nello scontro con un tifone nel Mar degli Arafura, il suo unico passeggero, il rampollo di una ricca famiglia, Mike Somerset, decide di tentare il rientro verso la terra ferma a nuoto e scompare. Il nonno d'America, ricco sfondo, assume Harvest, detective privato, per ritrovare il nipote. Il detective si unirà sul luogo della scomparsa proprio a Starke, sopravvissuto alla tragedia, all'indigeno assai occidentalizzato Fletcher Joe e alla cugina di Somerset stesso, dando il via a una lunga ricerca costellata da peripezie varie e incontri interessanti.

Decisamente un'ottima seconda portata, ora attendiamo l'imminente Hellnoir che dovrebbe condurci su atmosfere decisamente diverse e distanti da quelle proposte da Tropical Blues.


10 VOLTI (27)

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Son passati diversi mesi dall'ultima volta che abbiamo giocato insieme a 10 volti. Torniamo a farlo con un'edizione a tema, tema che non vi svelerò ma che mi sembra decisamente facile da intuire. Per i nuovi lettori del blog ricordo che giocare a 10 voltiè semplicissimo, basta indovinare a chi appartengono le facce dei signori qui sotto e scrivere i loro nomi nei commenti con riferimento al numero della foto. 1 punto per volto, 1 punto bonus ogni cinque volti indovinati.

Qui sotto la classifica aggiornata ad oggi:

01 La Citata 35 pt.
02 Bradipo 29 pt.
03 Luca Lorenzon 28 pt.
04 Poison 27 pt.
05 Luigi 26 pt.
06 Vincent 17 pt.
07 L'Adri 14 pt.
08 Babol 13 pt.
09 Urz 13 pt.
10 Cannibal Kid 11 pt.
11 Viktor 10 pt.
12 Morgana 9 pt.
13 Eddy M. 8 pt.
14 Elle 8 pt.
15 Alligatore 8 pt.
16 Frank Manila 5 pt.
17 Michele Borgogni 5 pt.
18 Umberto 4 pt.
19 Zio Robbo 4 pt.
20 M4ry 3 pt.
21 Miu Mia 3 pt.
22 Evil Monkeys 2 pt.
23 Marco Grande Arbitro 2 pt.
24 Beatrix Kiddo 1 pt.
25 Ismaele 1 pt.
26 Brusapa Jon 1 pt.
27 Glò 1 pt.
28 Blackswan 0 pt.
29 El Gae 0 pt.
30 Acalia Fenders 0 pt.
31 Rento Portento 0 pt.

E ora via!


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I PINGUINI DI MADAGASCAR

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(Penguins of Madagascar di Eric Darnell e Simon J. Smith, 2014)

Per la squadra dei pinguini di Madagascarè stata imbastita un'operazione simile a quella che qualche tempo dopo la Illumination Entertainment decise di effettuare con i Minions. Si estrapolano da brand di successo le spalle comiche meglio funzionanti e le si elevano a ruolo di protagonisti assoluti, puntando in prima battuta a un pubblico di bambini e alla vendita di tonnellate e tonnellate di merchandising.

Se per quel che riguarda il film dei Minions lessi critiche fin troppo severe e molti giudizi negativi (che in fin dei conti non condivido), a mio avviso l'esperimento tentato con I pinguini di Madagascarè da considerarsi decisamente meno riuscito.

Quelli che erano realmente i punti di forza della trilogia di Madagascar, i pinguini Skipper, Rico, Kowalski e Soldato, notoriamente teneri e coccolosi, vengono qui precipitati in una storia d'azione che avrebbe dovuto rivelarsi la cornice perfetta per i pinguini, sorta di action team comico capace di assicurare divertimento a tutte le latitudini.

Invece proprio il divertimento latita, a parte alcune gag riuscite a dovere, sulla lunga distanza i pinguini faticano a reggere il peso delle aspettative, la storia per loro imbastita è tutto sommato parecchio fiacca, meglio allora quanto fatto per i Minions dove la trama era meramente un pretesto per inanellare una serie di gag almeno più riuscite e continuative.


Il film si apre con un flashback che narra la nascita di Soldato, il più giovane dei pinguini, e la creazione di questa strana famiglia dal legame indissolubile. Poi ci si sposta in coda a Madagascar 3 e si riparte con l'arrivo di Dave, rancoroso polipo messo in disparte in numerosi zoo proprio a causa del maggiore appeal dei pinguini nei cuori dei visitatori. Per Dave non rimane che allestire un piano di vendetta nei confronti di tutti gli odiati esserini carini e coccolosi con la ferma intenzione di rendere la categoria invisa al grande pubblico. Ma oltre ai nostri pinguini, a contrastare il piano malvagio del polpo, ci sarà Vento del Nord, un team super attrezzato di spie composto dall'husky Segreto, dall'orso bianco Caporale, dalla foca Miccia e dalla civetta Eva capace di infrangere il cuore tenero di Kowalski.

Il film presenta diverse sequenze dinamiche che non riescono però ad arginare la noia, tutto sommato mi è sembrata questa un'occasione sprecata. Per ammirare i pinguini al loro meglio consiglio prove dal minutaggio inferiore come, ad esempio, l'ormai classico I Pinguini di Madagascar: Missione Natale.


FRA LA VITA E LA MORTE

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(di Tiziano Sclavi, Luigi Mignacco e Luigi Piccatto)

Probabilmente Sclavi deve essere un grande ammiratore del Frankenstein Jr. di Mel Brooks e in fondo chi può dargli torto? Chi non lo è? Oppure l'omaggio al celebre film con protagonista Gene Wilderè opera del disegnatore LuigiPiccatto che ritrae, all'interno di alcune vignette tra le meglio riuscite dell'intera storia, un senzatetto con le fattezze proprie del celebre attore. Nella breve storia editoriale di Dylan Dog (siamo solo al quattordicesimo numero), è già la seconda volta che si tira in ballo questo film ormai divenuto vero e proprio culto.

La trama poi nulla ha a che spartire con il film e all'apparenza, fino a un certo punto, sembrerebbe avere poco a che spartire anche con l'orrore, virando più verso i temi del sovrannaturale e del dolore (ma ci si rifarà sul finale).

Al London General Hospital si verifica un numero di decessi, all'apparenza dovuti a complicanze cliniche, ben superiore alla media. Quando a rimanere sotto i ferri è il padre dell'infermiera Jill Brady, affatto persuasa dagli eventi, questa si rivolge all'indagatore dell'incubo, forte anche dell'esperienza ultraterrena avuta con il fantasma del genitore appena defunto.

Ovviamente Dylan accetterà il caso che si svilupperà in direzioni quasi cronachistiche affrontando ipotesi più che terrene in odore di malasanità e delirio di onnipotenza dei medici, traffico d'organi e tutto lo scibile possibile tra le corsie di un grande ospedale cittadino. Ma si sa, nelle storie di Dylan Dog l'orrore è sempre in agguato.

La storia imbastita da Sclavi e Mignaccoè ben costruita con un buon crescendo di orrore e follia, non è una di quelle destinate a rimanere iscritte nell'albo delle migliori della serie pur toccando temi scottanti e risultando in fin dei conti comunque ben realizzata. In alcuni casi, come in questo per esempio, si potrebbe evitare l'abituale e molto caro all'horror finale con tanto di inaspettato (ma anche no) ritorno della minaccia protagonista. Ogni tanto una chiusura decisa e definitiva aggiungerebbe credibilità a una storia costruita nel campo dell'incredibile.

Il Dylan di Piccatto non mi dispiace affatto, il disegnatore unisce splendidi primi piani e ottimi volti a un tratto essenziale e funzionale, come per la sua prova precedente purtroppo ho trovato il suo lavoro un poco discontinuo con tavole molto riuscite e altre meno, nel complesso però la sua interpretazione del personaggio e dell'orrore non è affatto da buttar via. Intanto, tassello dopo tassello, il mito dell'indagatore dell'incubo cresce e cresce e cresce...


L'INVERNO DI FRANKIE MACHINE

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(The winter of Frankie Machine di Don Winslow, 2006)

L'inverno che Don Winslow cuce addosso al suo Frankie Machine non è di quelli facili, in fondo Frankie, al secolo Frank Machianno, è uno che ama la primavera. E per chi vive a San Diego, a pochi metri dal mare e a un passo dall'età pensionabile, la primavera non dev'essere una brutta stagione. L'ideale per fare ancora del buon surf, passione di gioventù, per fare l'amore con la bella compagna Donna e per sopportare alla meno peggio l'ex moglie Patty, ma anche per dedicarsi a tutta una serie di lavori utili per sbarcare il lunario. È un uomo impegnato Frankie, tra l'attività di vendita esche sul molo di San Diego a quella di fornitura di pesce fresco e servizio lavanderia per i ristoranti, fino ad arrivare alla gestione affitti di alcuni immobili, le sue giornate sono belle piene. I soldi servono per affrontare una vita serena, per mantenere un'ex moglie e per mandare all'università la figlia Jill, insomma, in un modo o nell'altro Frankie se la cava onestamente. Frankie piace a tutti, è cordiale, ha sempre una buona parola per chiunque ed è impegnato nel sociale per la gente del quartiere. Frankieè anche uno dei più efficienti sicari che la mala di San Diego e di tutta la costa ovest abbia mai visto in circolazione.

Frankie Machianno. Frankie Machine. Frankie la macchina. La macchina infallibile. Frankieè fuori dal giro da parecchio tempo, sono passati gli anni della violenza e della malavita, ma si sa, le vecchie storie spesso tornano a bussare alla porta. E alla porta di Frankie, un brutto giorno, viene a bussare Mouse Junior, figlio di uno dei boss della mala locale, della poco influente famiglia di San Diego sottoposta alla comunque poco importante mala di Los Angeles, boss di secondo piano ma comunque boss, gente alla quale è meglio non pestare i piedi.

Dopo averci presentato a fondo il personaggio lungo una quarantina di splendide pagine, Don Winslow precipita Frankie in un vortice di azione e ricordi nel quale sarà suo malgrado preso nel mezzo. Da quel primo incontro le cose inizieranno ad andare maledettamente storte e la narrazione accellererà incredibilmente alternando i tentativi di Frankie di uscire indenne dal pasticcio in cui si è venuto a trovare ai ricordi della sua precedente vita nella mala.

Machiannoè uno di quei personaggi con i quali l'autore ti porta a empatizzare, nonostante questi sia stato un lucido assassino, Winslow lo tratteggia come un uomo di grande onore, rispettoso delle donne, amante della famiglia e della buona vita, del buon cibo e dell'educazione. Un tipo d'uomo, e questo è l'unico piccolo neo del libro, che non si sa bene quanto possa essere realistico. Accettato questo aspetto, il libro è un ottimo gangster book (per adattare il più noto termine gangster movie) nel quale Winslow spende molte energie per rendere il suo personaggio un personaggio vero, con una sua vita, una sua etica, una sua quotidianità. La trama, da seguire con attenzione, è meno scontata di quel che si poteva presupporre e i pezzi del puzzle che affonda nel passato andranno pian piano tutti al loro posto.

L'opera di Winslow mi solleticava parecchio e da parecchio, ora sono ben felice di aver trovato un altro autore da tenere sott'occhio.

Don Winslow


VINCENZINA 007

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... ma nemmeno il bradipo.




Per chi fosse interessato ad acquistare una copia nell'edizione della Red dei libri di Bradi Pit o di Vincenzina potrà richiederla direttamente a Giuseppe contattandolo all'indirizzo email scapigliati@aruba.it

FROST/NIXON - IL DUELLO

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(Frost/Nixon di Ron Howard, 2008)

Dopo il controverso Il codice Da Vinci, Ron Howard sembra aver raccolto critiche positive sia dal pubblico che dagli addetti ai lavori in occasione dell'uscita del suo Frost/Nixon da noi presentato con il sottotitolo Il duello. Generi completamente diversi, per questo film un impianto classico con una regia solida, un parterre d'attori in ottima forma e un piglio cronachistico per raccontare quello che è stato (e che forse è ancora oggi) l'evento più importante nella storia della televisione americana: le interviste rilasciate dall'ex Presidente Richard Nixon (Frank Langella) al giornalista David Frost (Michael Sheen).

Non sempre questo genere di film riesce a coinvolgere totalmente lo spettatore (questo spettatore almeno), il rischio di guardare molto alla ricostruzione dei fatti può diminuire l'impatto emotivo provocato dalla vicenda, e penso a film visti negli ultimi anni come Milk o La Guerra di Charlie Wilson, non di meno se il film è come questo ben costruito, può risultare un'ottimo veicolo per conoscere o approfondire argomenti che spesso si ricordano solo per sommi capi ma che sono stati di grande importanza per la storia di un Paese se non del mondo intero.

È questo il caso di Frost/Nixon, un film ben recitato, ben girato e ben sceneggiato (ispirato all'omonima opera teatrale) che si guarda con piacere nell'attesa del duello finale tra una personalità fortissima e uno showman d'esperienza. L'esperienza di David Frostè però maturata nel campo dell'intrattenimento, il conduttore britannico è noto soprattutto in patria e in Australia per i suoi show divertenti. Quando, a tre anni dallo scandalo Watergate e dopo le dimissioni del Presidente, si presenta l'occasione di concedere una serie di interviste al presentatore, Nixon e il suo staff intravedono una possibilità di redenzione agli occhi della popolazione americana da concretizzare a scapito dell'inesperienza in campo politico di Frost.


Nelle intenzioni di Frost, ma soprattutto in quelle del suo staff composto dal produttore John Birt (Matthew MacFadyen) e dai giornalisti James Reston (Sam Rockwell) e Bob Zelnick (Oliver Platt), c'è quella di mettere finalmente allo scoperto le colpe di Nixon nei confronti dell'America. Il duello sarà duro per tutti.

Il pregio principale del film è sicuramente il cast, attori tutti in forma con due grandi protagonisti, un Langella che riesce a trasmettere il timore che un Presidente carismatico (seppure ex) può suscitare negli altri, la sua sicurezza e la sua preparazione nelle vesti di uomo pubblico, ma anche il tormento e la fragilità del privato. Ottima prova anche per Michael Sheen, accattivante con il suo sorriso alla Cruise prima maniera ma capace di esprimere dubbi e incertezze causate da una situazione estremamente delicata.

In fin dei conti un film che regala il suo contributo alla memoria, per non dimenticare un'altra pagina di storia che non può far male conoscere.


I PREDATORI DEL DESERTO

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(di Claudio Nizzi e Bruno Brindisi, 2002)

Texone molto particolare questo di Claudio Nizzi e Bruno Brindisi in quanto I predatori del deserto, e non lo scopro di certo io, è un sentito omaggio al maltese più celebre della storia del fumetto (ma forse anche in assoluto) e al suo autore Hugo Pratt. Ovviamente parliamo di Corto Maltese e più nello specifico l'omaggio dei due autori guarda alla prima avventura del personaggio, quella ballata del mare salato da parecchio tempo passata alla storia della nona arte.

Numerosi i rimandi alla ballata, intanto I predatori del deserto si apre col ritrovamento di Kit Willer agonizzante nel deserto a opera di una banda di delinquenti travestiti da giacche blu, così come la ciurma di Rasputin in principio della ballata raccoglieva dal mare i naufraghi Cain e Pandora Groovesnore, a Kit si aggiungerà presto la giovane e bella Liza, sopravvissuta all'eccidio dei membri della sua carovana proprio come la coppia di naufraghi sopravvisse all'affondare della goletta Amsterdam. Tra le fila del falso reggimento che trarrà in salvo Piccolo Falco, con scopi poco nobili proprio come quelli di Rasputin nell'analoga apertura della ballata, ci sono il "Tenente"Monkey e il "Sergente"Kirby, due gaglioffi con la fisionomia rispettivamente di Rasputin e Corto Maltese. Anche il carattere dei due falsi soldati rispecchia quello dei loro più celebri sosia. Inoltre l'interesse lussurioso di Monkey per Liza richiama i pensieri di Rasputin su Pandora, addirittura alcune scene sembrano omaggiare il più illustre racconto. Elemento più significativo, e centrale nello svolgimento della trama come nelle rivelazioni sul finale, la misteriosa presenza di un deus ex-machina che muove i fili delle vicende che, se nella ballata poteva essere identificato nel Monaco, qui il ruolo è ascrivibile al misterioso Predicatore.

L'omaggio diventa quindi la chiave di lettura più sfiziosa e divertente di questo Texone che con l'inserimento di Tex e Kit garantisce ancora una volta un buon intrattenimento. Pur non essendo riusciti a portare sulla testata un artista internazionale di chiara fama, anche il Texone 2002 si gioca bene le sue carte. La mancanza dell'artista internazionale nulla toglie all'ottimo lavoro di Bruno Brindisi, artista dal taglio moderno che personalmente, pur non avendone visionato molti lavori, apprezzo senza riserve. Bellissimi i suoi primi piani e l'uso delle ombre sugli stessi, grande espressività nei volti dei personaggi, soprattutto nelle varie declinazioni della crudeltà di un Monkey dallo sguardo spiritato e cattivissimo e nelle buffe smorfie di Kit Karson. Bravo a rendere al meglio la bellezza innocente di Liza come il piglio deciso di un Tex roccioso, secondo il mio gusto matite da premiare in toto. E così ecco un'altra bella sorpresa proveniente dalle parti dell'Arizona.


BATMAN - IL FILM

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(Batman: The  movie di Leslie H. Martinson, 1966)

Ben prima della marea dilagante di cinecomics che ormai appestano le sale cinematografiche (spesso anche in senso buono), molto prima del Batman di Tim Burton e finanche prima del Superman interpretato da Christopher Reeve, c'è stato Batman: il film con la mitica e inarrivabile coppia d'attori Adam West (Bats) e Burt Ward (Robin, il ragazzo meraviglia, qui stranamente citato come  prodigio in diverse occasioni).

I due sono, come tutti ben sapranno, la coppia d'assi che ha interpretato il dinamico duo nella famosa serie dal sapore camp degli anni '60, il Batman saturo e colorato dalla spiccata vena faceta che aveva la riconoscibile caratteristica di presentare onomatopeiche nuvolette durante le sequenze di scazzottate con celebri villain e scagnozzi assortiti.

Sul finire della prima stagione, probabilmente per saziare la fame dei fan in crisi d'astinenza, si decise di realizzare un lungometraggio con protagonisti proprio quei Batman e Robin lì, sfruttando l'occasione per metter loro contro il meglio dei villains prodotti dalla serie in un'unica, ma assolutamente poco seria, associazione criminale: quindi abbiamo la sensuale Catwoman (una bellissima Lee Meriwheter), il Joker detto anche Jolly, sigh, (Cesar Romero), il Pinguino (Burgess Meredith) e l'immancabile Enigmista (Frank Gorshin).

A dirigere il tutto il regista di stampo chiaramente televisivo Leslie H. Martinson, cresciuto a pane e telefilm. L'impressione è che per questo film si sia passati dal registro leggero e faceto proprio della serie tv a quello marcatamente cialtrone e demenziale espresso in Batman: Il film. Alcune sequenze sono indizio inconfondibile di questa scelta stilistica, tra tutte le più famose sono quella iniziale  con l'attacco a Batman da parte di uno squalo palesemente di gomma (allontanato con il Bat-repellente per squali) e quella in cui Batman non riesce a disfarsi di una bomba in procinto di esplodere, incapace di trovare un posto privo di persone così da non mettere in pericolo nessuno. La bomba ovviamente è di quelle tonde con la miccia sopra. Tutto è macchiettistico, assurdo e delirante, la trama un pretesto per inanellare sequenze ai limiti del ridicolo che ovviamente sono talmente sceme che non possono non farti sorridere. Il film è dichiaratamente cialtrone, non si nasconde certo dietro a un dito, basti pensare alla soluzione da parte del dinamico duo degli enigmi proposti dall'Enigmista, soluzioni assurde ricavate dalla prima cazzata proposta solitamente da Robin (e sono cazzate enormi) presa poi per buona e che nella stessa assurda maniera porterà alla soluzione dell'enigma stesso. Mi sembra che nel telefilm non si arrivasse mai a tanto.


Il cast è più o meno lo stesso della serie tv (con l'eccezione dell'attrice che interpreta Catwoman), a completarlo ci sono Alfred (Alan Napier), il Commissario Gordon (Neil Hamilton) e il Sergente O'Hara (Stafford Repp). Largo sfoggio anche dei bat-veicoli, dalla stupenda Bat-mobile, al Bat-cottero fino ad arrivare al Bat-scafo e al Bat-sidecar con sganciamento ai limiti del ridicolo.

Film per fan della serie, per i fan di Batman o più semplicemente per i fan delle puttanate a briglia sciolta. Visto in quest'ottica il film ha un suo perché, io e Laura alla fine ci siamo divertiti.

UNO, DUE, TRE!

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(One, two, three di Billy Wilder, 1961)

Commedia molto divertente dal ritmo indiavolato quella girata da Billy Wilder a Berlino in tempi tutt'altro che facili, cosa che rende questa pellicola ancor più preziosa. Le riprese iniziarono in un'epoca in cui le due Germanie erano sì divise ma in cui ancora non era stato edificato il famoso muro di Berlino. Tempi di guerra fredda e nervi tesi, la situazione geopolitica si inasprisce rapidamente e la Repubblica Democratica Tedesca (Germania Est) decide di erigere il muro per impedire ai propri cittadini di espatriare nella Repubblica Federale Tedesca (Germania Ovest), tutto questo proprio mentre la troupe di Wilder gira Uno, due, tre!

Quella che doveva essere una commedia con moltissime battute a sfondo politico sui contrasti tra est e ovest si troverà ad approdare sul mercato cinematografico in un momento in cui le cose si sono fatte ben più gravi e tese rispetto ai tempi in cui il film era stato messo in produzione, difficile ridere di situazioni a causa delle quali ora la gente perde la vita nel tentativo di passare da una zona all'altra di Berlino. Questo l'unico motivo di insuccesso ai tempi d'uscita di un film altrimenti riuscitissimo e davvero spassoso.

Protagonista (quasi) assoluto il duro per eccellenza, quel James Cagney dai tratti decisi noto per lo più ai cinefili per i suoi ruoli da canaglia in tanti noir interpretati dagli anni '30 in avanti. Nel campo della commedia il newyorkese si rivela grandissimo mattatore, attore capace di reggere ritmi altissimi e sequenze di battute a ripetizione con una perizia a dir poco notevole, da applausi.

Ed effettivamente la contrapposizione tra est e ovest, ma soprattutto tra i due modelli di vita che guidano gli ideali dei due schieramenti, a dire Capitalismo e Socialismo o America e Russia se preferiamo, è fonte di innumerevoli battibecchi e trovate realmente molto divertenti. E già c'era uno spudorato product placement, però decisamente alla luce del giorno e meno occulto di quello odierno.


Il signor McNamara (James Cagney) è un dirigente della filiale berlinese della Coca Cola (prodotto ovviamente molto invidiato all'est e finanche in Russia). Capita che la figlia del suo principale, il signor Hazeltine (Howard St. John), sia in visita a Berlino e che il principale stesso chieda a McNamara di ospitarla e di darle un'occhiata durante il soggiorno. Quest'ultimo, in attesa di una promozione, coglie l'occasione per ingraziarsi il capo, purtroppo per lui la giovane Rossella (Pamela Tiffin) non sarà così facile da tenere sotto controllo. Da una sua scappatella a Berlino Est tornerà sposata con Otto Piffl (Horst Buchholz), militante comunista con forte spregio dell'America e del capitalismo ma sinceramente innamorato di Rossella. Ma le sorprese non finiranno certo qui.

A dar forza maggiore alla vicenda principale si uniscono le gesta di una serie di comprimari di primordine che vanno dalla moglie di McNamara, Phyllis (Arlene Francis) alla provocante segretaria Ingeborg (Lilo Pulver) fino ad arrivare ai dipendenti della Coca Cola con in testa il collaboratore Schlemmer (Hans Lothar).

Il ritmo è sempre altissimo, non c'è davvero tempo per annoiarsi, inoltre una bella fotografia permette di ammirare al meglio la Porta di Brandeburgo appena prima della chiusura dei confini tra le due Germanie, alcune scene infatti è stato necessario ricrearle in seguito in studio. Billy Wilderè un maestro della commedia americana, Uno, due, tre! ne è soltanto l'ennesima conferma.


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